Valentina Belvisi, orfana di femminicidio:” Quando ho avuto il cognome di mia madre sono rinata. Quell’uomo non è mio padre, è semplicemente Luigi. Grazie a Roberta Beolchi per avermi dato una speranza”
Un cambio di cognome, di città, di vita. Il coraggio di chi ha avuto la forza di rialzarsi e andare avanti. Protagonista della storia è Valentina Belvisi, un’orfana di femminicidio. Il 15 gennaio 2017, Luigi Messina, il padre di Valentina, ha ucciso con 29 coltellate, la moglie Rosanna Belvisi. Nel 2018 la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado. Luigi Messina sta scontando la pena di 18 anni di carcere, in quanto il giudice ha escluso l’aggravante della crudeltà. Il massacro è stato la conseguenza di un raptus, di una “deflagrazione emotiva incontrollabile”, come si legge dalla sentenza. Valentina è convinta che Luigi, così lo chiama, non si è mai pentito: “Continua a infangare mia madre, poverina, si starà rivoltando nella tomba. Vuol far passare come un raptus quello che ha commesso. Qualche settimana fa gli ho detto di smetterla con le bugie. Poco prima del massacro, portò sotto casa l’amante e suo figlio, il mio fratellastro. Allora aveva due anni. Pensava di vivere tutti sotto lo stesso tetto, come fanno gli arabi. Follia pura. Poco tempo fa, sono stata contattata da un’assistente sociale di Vicenza, la città dove vivo, voleva sapere che padre fosse. Lui le ha detto che si stava separando da mia madre, ma non è vero. Non si sarebbe mai allontanato da lei per il conto in banca. Lui non lavorava da tempo. Dopo i continui attacchi a mia madre e l’ennesima bugia ho deciso di mettere fine alle nostre telefonate”.
Che tipo di conversazioni erano, di cosa parlavate durante le telefonate?
“Tutto è iniziato perché dovevo fare la domanda per gli orfani di femminicidio. Il mio vecchio avvocato, dopo aver perso un anno di tempo, mi spiegò che c’era un iter da seguire e mi chiese se volevo sentire mio padre. Da allora si sono susseguite una serie di chiamate, che però sono diventate un po’ troppe frequenti e ho deciso, così, di scaglionarle. Voleva sapere della mia vita, cosa facevo, mi raccontava come si svolgeva la sua giornata in carcere. A volte parlavamo di mia madre. Gli ho fatto delle domande per capire se fosse pentito di quello che aveva fatto, per la sua coscienza. È una persona instabile a volte dichiara essersi pentito, altre volte incolpa mia madre, trova sempre il modo per giustificarsi. Luigi non lavorava, mia madre lo ha salvato dalla strada, c’era un periodo che beveva, ne ha fatte di cotte e di crude. Allora, ho deciso di non sentirlo più, non mi fa bene. Penso anche al mio fratellastro, ora avrà otto anni. Aveva due anni quando è successa la tragedia. Cosa gli dirà? Sono tuo padre e sono in carcere perché ho ucciso la madre di tua sorella”.
Lo hai informato sul cambio di cognome?
“Gliel’ho detto di persona. Non mi volevano concedere l’incontro in carcere con lui. Ho spiegato che potevano anche passare anni, ma il risentimento non sarebbe mai passato. Era inutile aspettare. Così, dopo tanta insistenza, me l’hanno concesso poco prima del processo di appello, lui aveva chiesto lo sconto di pena. L’ho guardato negli occhi e gli ho detto che mi sarei chiamata Valentina Belvisi e non più Valentina Messina. Lui non ha proferito parola a riguardo. Avevo desiderio di prendere il cognome di mia madre già prima del tragico episodio, sono sempre stata orgogliosa di lei. Luigi, invece, c’era in un modo non adeguato a un padre di famiglia. Dopo quel giorno, mi faceva schifo firmare con il cognome Messina. Nel gennaio del 2020, ho potuto avere il cognome di mia madre. È stato come nascere per la seconda volta. Non ho vissuto l’adolescenza e la giovinezza, a causa delle sue imposizioni e dei problemi che creava in casa. In trenta anni ha commesso cose terribili”.
Come mai, nell’arco di questo lungo tempo, tua madre non ha chiesto aiuto?
“Aveva paura potessero portarmi via da lei. Mia madre era l’unica che lavorava e lui faceva il beato mantenuto. Temeva che con la denuncia sarebbero intervenuti gli assistenti sociali, che in ogni caso sono entrati in casa quando ho compiuto 16 anni e ho deciso di andar via”.
Un particolare che ti è rimasto impresso di quel giorno.
“Nessuno mi ha avvisata, l’ho saputo tramite la tv. Ero appena tornata da un viaggio in Svizzera. Dovevo vedere mia madre il giorno dopo, continuavo a telefonarle, ma non ricevevo alcuna risposta. Non guardavo mai il telegiornale. Fatalità, quel giorno stavo a casa del mio ex, stavamo aspettando il fratello per uscire. La tv era su Rai 2, quando compare la scritta donna uccisa a Milano Lorenteggio. Ho controllato su internet, dove erano riportati altri particolari, l’indirizzo e l’età. Non poteva che essere mia madre. Le autorità hanno spiegato che non riuscivano a rintracciarmi. In Svizzera, i ricettori non prendono bene, ma già intorno alle 15 ero qui a casa. Probabilmente è stato un tentativo di protezione, per non farmi andare sulla scena del crimine. Potevo, però, scoprirlo diversamente, recandomi prima a casa di mia madre”.
Oggi sei Ambasciatrice di Edela e porti avanti una serie di progetti…
“Noi affrontiamo tante tematiche che lo Stato tralascia. Lo psicologo l’ho trovato da sola con l’aiuto di un’altra associazione, al tempo non conoscevo ancora la presidente di Edela, Roberta Beolchi. Ero sola quando ho cambiato città e ho dovuto effettuare il trasloco. Ero sola quando ho dovuto ripulire il pavimento e i muri imbrattati di sangue, pensavo mi facessero trovare almeno la casa pulita. Ho avuto la forza di ricostruirmi una vita, ma non tutti ce l’hanno. Molti orfani di femminicidio sono minorenni, a volte neonati. Manca l’assistenza anche ai nonni, alle famiglie affidatarie. La svolta è avvenuta quando ho conosciuto Roberta. Quando mi ha aperto le porte di Edela, mi ha dato tanta speranza, mi ha aiutato a trovare lavoro. Roberta c’è sempre, per tutto. Anche se vuoi studiare, ti mette nella condizione di farlo. Insomma, ti aiuta a fare tutto quello che lo Stato non ti permette di fare. Abbiamo tanti progetti in mente e speriamo di realizzarli quanto prima. Essere ambasciatrice di Edela vuol dire ricambiare tutto quello che Roberta ha fatto per me, continua a fare e sono certa farà in futuro. Vogliamo donare una speranza agli orfani di femminicidio, bambini e adulti che non sanno come risolvere questioni su cui ancora oggi ci sono molto punti interrogativi. La mia vita è cambiata in poco tempo. Avevo una famiglia e poi, in un attimo, più nulla. Poi, ho avuto la fortuna di incontrare mio marito, una persona buona e paziente e ho costruito con lui una famiglia a Vicenza”.
C’è una possibilità di rinascita per tutti, quindi?
“Certo, ma bisogna volerlo. Il cammino è duro, non è facile. Bisogna entrare nell’ottica che non si può darla vinta alla persona che ci ha fatto del male. Questo ragionamento mi ha dato la forza di andare avanti. Se cadevo era un’ennesima sconfitta per me e mia madre. Non doveva pensare di essere riuscito a far male entrambi. Alla fine, con tanta determinazione, ce l’ho fatta”.
Hai definito Luigi Messina “fortunato”, perché?
“Ha avuto una condanna di soli 18 anni e ne sono già passati sei. Temo ne manchino solo quattro. In Italia esistono sconti di pena, permessi ecc. Loro hanno troppe concessioni, c’è una rete che li protegge, invece dovremmo essere noi quelli protetti. C’è un sistema sbagliato. Luigi non è pentito. Puoi lavorare su di lui a livello psicologico, ma è tutto inutile”.
Qui rientra l’importanza del progetto della prevenzione rivolta agli uomini che sarà presentato a breve …
“Assolutamente sì, è troppo facile voler aggiustare tutto dopo. Un uomo in difficoltà mentale è un pericolo per la famiglia e si deve quindi, intervenire prima. Non serve volerlo inserire successivamente in società, non credo ai pentimenti del dopo. Occorre proteggere donne e bambini e al contempo svolgere un lavoro sugli uomini. Non si possono lasciare allo sbaraglio e metterli in condizione di commettere un omicidio, bisogna fermarli prima e capire cosa fare. Magari, come sostiene Roberta Beolchi, con questo lavoro riusciamo finalmente a ridurre il numero dei casi. Colgo l’occasione per ringraziare Roberta per tutto quello che ha fatto e continua a fare per me, è un punto di riferimento nella mia vita”.